KHUMEIMU

Ideato e scritto da Franco Lo Cascio
con la collaborazione di Rivani che amano Riva Trigoso (orgogliosi di esserlo)

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Nui semu de Riva
Mugugni nu n’oimu
Femu cumm’oimu
E cumme ne pà!
(filastrocca che i giovani rivani amavano ripetere negli anni 40, 50, 60 e 70)

 

C’era una volta Riva, una Riva che non c’è più, quella di quando noi, primi virgulti del dopoguerra, eravamo bambini.

Di quando lo strade non erano ancora asfaltate, l’acqua si andava a prendere con lo stagnone dalla pompa (vero e proprio punto di riferimento nelle varie zone tanto che scrisse una volta un navigante rivano, di via Genova, l’indirizzo così: “Alla signora mia moglie – via della pompa – Riva Trigoso” e la lettera regolarmente arrivò!!).

In quella Riva non si chiudevano le porte a chiave, i bambini passavano il loro tempo a giocare in strada e in spiaggia. Accoglievano come gustose prelibatezze le scaglie di ghiaccio che rubavano dal camion che portava i lunghi blocchi freddi alle osterie, facevano giochi quali il pampano, i callai e quasi sempre inventavano i giocattoli, dato che non ce n’erano, costruendo con la patagröea di punta Baffe biglie, soldatini, navi, aeroplani. Con i legni che portava il mare e con le palme si costruivano sontuosi galeoni che, quando venivano immessi nel Petronio, erano regolarmente bombardati a sassate dalle “bande dell’altra riva” (le bande erano tantissime, non solo Riva e Ponente ma anche via Palermo, via Dollari etc.).

Quando il gelato sul ponte costava ancora 5 lire i bambini sapevano fare i nodi per gli ami, con il coltellino si faceva tutto, con i bricchetti si accendeva il fuoco (grande merito saper accendere il fuoco con qualsiasi tempo – di quelli di città si diceva: “nu sa mancu assende u feugu!”).

Lo scaldino era una invenzione tipicamente Rivana e a sera – quelli ai quali non era stata fatta la porta “americana” - venivano lanciati in alto con spettacolari cascate di cenere che costringevano qualcuno – spesso e volentieri – a correre con la testa sotto la pompa del mare (era sull’angolo del campo di calcio situato tra il palazzo del Fulmine e la Pensione Vela). Erano pochi i palazzi a Riva: quanti rivani – a lor dire innamorati di Riva – l’hanno deturpata con il cemento! E ora ci sono riusciti anche a Renà!

I ragazzini di allora erano curiosi molto di più di adesso: per vedere una sottana (un seno avrebbe fatto impazzire!) avevano escogitato – oltre ai tradizionali buchi nelle cabine dei bagni – le spedizioni notturne sotto il tavolaccio del Bagni Gambagiggia (prima che bruciassero) dove a sera si ballava e dalle molteplici fessure – con la penombra che c’era! – l’immaginazione e l’eccitazione facevano vedere “spettacoli” omerici.

Le coppiette dei più grandi si appartavano – era un costume consolidato – alla spiaggia tra le barche ed i ragazzini di allora riuscivano a volte a “curiosare”, a volte a mandare in fumo la conquista quando qualcuno se ne accorgeva in tempo. Ma quando qualcuno era ormai preso dalla foga rimanevano impressi dialoghi inenarrabili…

Poi si sposarono e prolificarono contenti…!

Era comunque più difficile un flirt tra rivani e rivane, tanto che molte coppie andavano in bici fino ai… Cavi per darsi un bacio.

E i ragazzini rivani, finita la “stagione” estiva andavano spesso a fare conquiste verso Cavi e Lavagna o verso Moneglia e Deiva… (i moneglini gelosi bucavano molto spesso la bicicletta che i rivani prendevano in prestito dagli operai del cantiere fino a quando loro uscivano al suonar del “corno”, la sirena che regolava tutti i ritmi della vita in paese.

I rivani avevano sviluppato un campanilismo tremendo, forse anche giustificato per alcuni aspetti, ma pur sempre tipico modo di ragionare dei piccoli paesi.

Ma Riva era comunque il centro del mondo e a Riva c’era davvero qualcosa in più proprio per la sua storia e quella dei suoi abitanti (vedi appendice storia di Riva).

I ragazzi di Riva centro avevano costruito una fionda gigante usando le stanghe di un carretto e due camere d’aria intere, riuscendo a lanciare bottigliette piene di sabbia dal fiume fino a ridosso del refettorio.

Un lavoro da incoscienti che per poco non colpì una donna intenta a “sgarbire” la lana al sole.

E la banda di ponente fece una fionda ancora più grossa, tesa tra due alberi sulla collina e sfondò il tetto della fabbrica di reti di Titilin. Fortuna che era domenica e nessuno era al lavoro.

Bellissimo lo scherzo che faceva accorrere alla spiaggia un sacco di gente preoccupata per l’incendio che divampava in mare a 3-400 metri dalla battigia. Era il frutto di abile “zattera costruita con il fuoco ritardato dentro” e lanciata da terra verso il largo grazie alla brezza notturna.

Altra impresa eroica – mai riuscita perché il fico rispuntava sempre (battuto solo oggi dal cemento) – era quella di bruciare il Fico nel Petronio proprio sotto la fermata della corriera.

E se un incauto passante ammoniva sul non farlo si beccava il coro di scherno: “e chi te ti, u padrun du figu?!”. Altra grande impresa era quella di costruire dighe nel Petronio, per la quale opera titanica lavoravano di comune accordo tutte le parti.

E a fiume asciutto si andava a caccia di anguille (regolarmente si pescavano con il “lambuggiu” e l’ombrello aperto) con la forchetta alzando le pietre, da cui il detto valido in altri campi “u l’à issou a pria e i g’an piggiou l’anghilla”.

Inoltre, tutte le bisce d’acqua e rane che venivano trovate venivano impietosamente messe nelle vasche cittadine e/o – d’estate – sparpagliate in spiaggia tra gli ignari bagnanti.

Altra impresa eroica – e incosciente – era quella di andare fino sotto la cascata in barca quando il Petronio aveva le piene estive, fino a farsi “varare” in mare sulla cresta della corrente.

Riva era il centro del mondo anche perché il corrispondente di allora, Edo Bo, molto ce ne metteva di suo, come quando uscì sulla stampa un “Riva Trigoso dal bel mare vermiglio” o un improbabile “mezzo metro di neve in val Petronio” con telefonate preoccupate da parenti in tutta Italia. Molte volte inventavamo delle storie con dovizie di particolari che poi lui mandava regolarmente per radio o in stampa.

Ma Edo era ed è un grande innamorato della sua terra e allora – per eccesso di amore, in un anno di recessione, senza neanche l’ombra di un turista – uscì con un “i turisti sono così tanti che dormono nelle barche”… cosa per la quale gli albergatori lo rincorrono ancora adesso!

Abbiamo parlato tanto di Petronio e poco di mare, ma per ricordare quanto i rivani fossero marinai basterebbe dire (non è una bugia!) che un leudo rivano di Riva, nel pieno di un mare forza sette nelle Bocche di Bonifacio, avvicinato dall’incrociatore Montecuccoli si rivolgesse a loro dicendo: “ghei besegnu de agiuttu?” Come è altrettanto vero che quando il Galeone Genovese vinceva le regate delle repubbliche marinare aveva ai remi ben 3 rivani!
E, visto che siamo arrivati allo sport – sembrerà strano che in un piccolo paese come Riva nascessero così tanti campioni, o sarà così anche negli altri ? – sicuramente parecchi atleti sono stati sopra la media.
Nel calcio tantissimi bravi, ma i voli di Fulvio a Riva e di Star a ponente tra i portieri, la classe di Ventuatera, terzino eclettico che si permise di dire a Nicolè, a fine partita, “tou chì u balun!” e il genio e sregolatezza di Franco “nanare”, franco “lupo”.

Evaldo era stato azzurro tra i fondisti del nuoto, partecipando ad una Capri – Napoli, Gianni – che però era bravo in tutto – azzurro in atletica per il salto in lungo, Danilo azzurro di pattinaggio a rotelle e tiro al piattello (più eclettico di così!).

Certo che Riva ha visto un periodo in cui lo sport era valorizzato in tutte le sue discipline e il Manara era sempre finalista ai Giochi di Roma.

Oggi che è rimasto solo il calcio, il vecchio Riva balla la Samba ed il suo più grande ed incontestabile tifoso è… di Ancona. Grande Mario!

Il mare grosso, la mareggiata estiva era l’occasione di tutta un’estate – altro che mercoledì da leoni! – perché in mare ci andavano solo quelli di Riva; come per incanto si ritrovavano lì tutti, pronti a lanciare l’urlo sulla cresta dell’onda. A terra anche le mamme lanciavano urli… e pietrate, per convincerli a tornare a terra. Il mare grosso d’inverno invece assumeva espressioni di potenza da ammirare a bocca aperta. Nel 1952 non si andò alle elementari per il mare grosso, le onde passavano sotto il volto, Rossignotti e la Pina e il Bar da parte a parte; nel centro di Riva si andava in barca, così come a ponente, via Balbi e via Dollari e piazza della Croce.

Era facile che il mare entrasse in quegli anni e molte volte, a sera, al cinema Bardilio entrava l’acqua durante la proiezione. Anche perché c’era la sola “muraglietta” a protezione.

Era davvero un’altra Riva, un mare, una sabbia che neanche Corsica e Sardegna.

Proprio la conformazione di tale spiaggia e tale fondale permettono i vari liberi: uno spettacolo ormai unico in Italia in un golfo a mezzaluna perfetta, dove Punta Manara, una volta isola, è ancora isola e oasi faunistica-vegetale particolare.

A quei tempi era molto sentito il campanilismo stra e cittadino; per la festività del Soccorso i rivani del centro passavano il ponte con l’ombrello al braccio per quella che era stata ribattezzata “Madonna del rubinetto” e anche al Cav.Uff.Grand’Uff. Edo non si perdonava a cuor leggero di essere di “Tregosa”.

E le “donne” di Riva? Sarà bello alla prossima occasione sentire anche le loro campane, il loro punto di vista. Malgrado Riva sia sempre stato un paese di belle donne (allora erano la Cristina, la Vanna, la Margherita, la Franca, la Letizia…) ed un paese di fustacci (sic!) molto poche le coppie che non andavano a cercar altrove l’anima gemella. Infatti a Riva zitelloni e zitellone abbondano.

Anche perché quando i fusti che avevano ecceduto nelle conquiste – facili! – con le tedesche, normali con le lombarde e succose con le piacentin-emiliane della Villa Pesche, si ritrovavano in inverno a cercar l’amore serio ma… l’anghilla a l’ea zà scappaa!

C’era anche chi sbagliava e abbandonava la retta via oppure chi, dopo la ragazzata, tornava in carreggiata. Una volta nel canterino di Ponente erano rimaste sequestrate due piccole navi e qualcuno era riuscito ad andare a bordo di notte per portar via le barre di ferro nella stiva. Con il carretto di Sarvan le barre furono portate fino da Belloni, ma, all’arrivo dei carbinè, barre e carretto finirono nel fiume e tutti scapparono.

Non sappiamo che fine fece il carretto di Sarvan e se Belloni si recuperò lo stesso le barre dal fiume. Non domi, scoprirono che nella stiva era anche pieno di liquori e fu una sbornia collettiva. Due o tre di loro, un po’ più birichini, decisero di prendere le elemosine della Madonnetta: solo che lasciarono lì giacca e documenti. Sempre loro, in una spedizione fino a Viareggio, riuscirono a rubare la cassa dei bagni. Sorpresi dai carbinè, il “capo” riuscì a salire sul tetto delle cabine e ad appiattirsi lì. Gli altri due, mentre uscivano in manette, rivolgendo la testa verso l’alto, salutarono il “capo”: Oei, i n’han pigiou, ciou, se veghemu! …e così anche il grande “capo” finì al fresco…

La patente l’avrebbe presa 5 anni dopo, la macchina, ripitturata con sussiego di giallo carraio l’aveva comprata per 10.000 lire dal barbiere di Riva. Mentre pitturava a pennello tutti gli dicevano qualcosa e lui aveva apposto il cartello “grazie per i vostri consigli ma preferisco sbagliare da solo”. Cominciò a girare per Riva e dintorni passando dalle stradine (a volte bravate fino in galleria per Moneglia con un flash intermittente e larin che ululava UE UE UE…) fino a quando un bel giorno il vigile urbano “babau” Moschito gli fece ALT! con la mano.

“Ghe sun,” si disse, mentre Moschito: “ti me daiesci un strepun finnha in cumune?”.

Sempre quella macchina un giorno prese fuoco in piazza della Croce e fu un provvidenziale secchio d’acqua, dal primo piano, di Strombolo a salvare da guai peggiori. Finì, la macchina, gloriosamente la sua vita sott’acqua a Punta Manara ed un bel giorno un peschereccio se la portò fino a Santa Margherita.

Cosa sarebbe il golfo di Riva senza Cantiere e Canterino?! Il canterino purtroppo non ha mai dato lavoro a sufficienza in relazione allo spazio che occupa e deturpa; il Cantiere, almeno, ha dato lavoro a più generazioni, ha contribuito a creare nei rivani (sul loro sangue, sudore e pelle) una coscienza di lavoratore. Ha permesso scambi culturali tra regioni diverse: non solo a Riva sono venuti da fuori, ma da Riva sono anche andati. Ad Ancona c’era o c’è un quartiere dove si parlava genovese, alla “casermetta” di Palermo si parlava o si parla ancora rivano antico. Molti si sposarono a Riva, dando un po’ di linfa nuova a una popolazione ristretta tutta imparentata a tripla mandata ed è per questo che a Riva il rinnovamento nei giovani è stato più forte e vivace che altrove. Malgrado quel nefasto 1952, minimo storico delle nascite!

I rivani non hanno mai voluto essere comandati da nessuno, hanno subito e subiscono la vicina Sestri per motivi burocratici; ma hanno l’orgoglio e il vanto di essere figli di un paese così bello e ingiustamente considerato minore, e spesso dimenticato. Ma a Riva non si fanno discorsi: mentre a Genova si dice che il mugugno è libero a Riva le lamentele non sono apprezzate: il motto ricorrente era TAXI E ALLESTISCITE !!

Un po’ di storia …

Non c’è dubbio: agli albori della nostra storia fu un certo Muzio Scevola a sancire che “sciu lepegu se schigge” e fu certamente Muzio “Orazio” Coclite ad abbattere a colpi d’ascia il ponte sul Petronius per difendere Riva dagli elmocornati Padani (che allora venivano giù senza le mogli…). Dicesi che il Petronius – grazie ad opere idrauliche dell’anno 1000 in Pestella – acquistasse molta più acqua nel suo alveo, fino a formare la bellissima spiaggia dorata attuale (e chi ghe l’ha una maina cuscì?!) mentre gli scarti neri e ferrosi di Libiola finirono da allora impietosamente nel Gromolus.
A Sestri Levante ah ah ah…

Si racconta di invasioni saracene, di tale Alì Zoheir che si sposò in Riva (da cui la stirpe Zolezzir?), di migrazione nel tempo a ripetute ondate, dai cariolanti di estrazione veneto-friulana, venuti a costruire le gallerie, ai marinai della lucchesia arrivati a fine '800 per i neonati cantieri navali, ai marchigiani e palermitani dei Cantieri Piaggio ora Fincantieri.

Indubbiamente il ceppo toscano è stato il più forte (Valsuani, Vannucci, Vivarelli, …) tanto da sopraffare i cognomi autoctoni (Bregante, Castagnola, Zolezzi, Stagnaro, …) e quelli misti (Faranna, Gant, Lo Cascio, Franguelli, …). I figli parlavano rivano, i nonni e i papà un “rivano” molto colorito, molto molto.

Lo sbarco dei Saraceni

Arduino Favero era un personaggio eclettico – da lui imparammo, bambini, a fare i nodi agli ami e a costruire lancette “cun u cutellin” – che, malgrado non avesse fatto l’Università, riuscì a mettere in piedi uno spettacolo teatrale nel quale intervennero come attori tutti i rivani.

La storia si svolge nel 1600 e narra di un amore sbocciato e corrisposto tra Alì Zoheir e Alina, giovane fanciulla rivana.

Deve essere tanto vera la storia che, ancor oggi, non è difficile trovare tra i rivani tratti somatici indubbiamente … “saraceni”!

Durante la rappresentazione, Rino “Muellin” Bregante era vestito da “Mohamed” (padre di Alì) e scontrò una spettatrice “foresta” vestita di bianco. Questa si guardò il vestito pensando si fosse sporcato di tinta: Rino le “frattò” il braccio sul vestito dicendole: “nu ghe n’ho de pitua, mi sun cuscì pè davei”!

Spiaggia illuminata da mille e mille lumini, una spiaggia dove esistevano ancora Leudi e Rivanotti, la commedia all’aperto vide lo sbarco davvero dal mare, con musiche e canti che lo stesso Bavero aveva fatto provare per mesi a tutto il paese reclutato.

 

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